sabato 2 novembre 2013

Le tradizioni popolari brianzole nel Museo Etnografico dell’Alta Brianza di Camporeso

 
Lasciato alle spalle l’abitato di Galbiate (Lecco), la strada che conduce all’antico borgo medievale di Camporeso si snoda stretta e sinuosa nel primo tratto, per poi procedere con maggiore decisione verso la parte finale. Il luogo è veramente bello e degno di essere visitato, non fosse altro per la splendida vista sul sottostante lago di Annone e per la presenza di una falesia, apprezzata e frequentata palestra di roccia con molteplici vie attrezzate. Ai tempi d’oro della presenza contadina nella zona, Camporeso ospitò fino ad un centinaio di coloni, che ridussero progressivamente la loro presenza fino agli anni Settanta, quando gli edifici si spopolarono. I nobili Tinelli di Gorla erano proprietari della porzione più consistente del borgo, mentre la parte più a monte apparteneva all’Ospedale Fatebenefratelli di Milano. Ora, quest’ultima porzione, acquistata dal Parco del Monte Barro nel 1991, ospita la sede del museo, i locali del quale sono stati ristrutturati grazie a finanziamenti pubblici.
 
Camporeso. La chiesina
 
Il Museo Etnografico dell’Alta Brianza, inaugurato nel 2003, è un centro di ricerca e di esposizione dedicato alla vita quotidiana delle donne e degli uomini che sono vissuti e vivono in alcune aree della Brianza, soprattutto in quelle collinari.

La porta di ingresso del museo è massiccia e ben solida, costruita in legno massello, probabilmente originale. Sopra di essa si scorgono labili tracce di un dipinto popolare, del quale, mi è stato riferito da uno dei volontari che svolgono la funzione di guida, è possibile individuare i principali soggetti, secondo un modello assai diffuso: la Madonna in piedi e Giobbe seduto alla Sua sinistra. A loro veniva affidato ogni anno nel mese di maggio la buona riuscita dell’allevamento dei bachi da seta. Non a caso la prima stanza del museo è dedicata alle attività ed agli strumenti che consentivano l’allevamento dei cavalèe. Per oltre due secoli, infatti, in Brianza e nel lecchese la bachicoltura ebbe grande importanza nell’economia e nella vita quotidiana dei contadini. Tra maggio e giugno i proletari della terra, con un lavoro molto impegnativo, portato avanti spesso dalle donne, si garantivano un’utilissima entrata di denaro, dopo le ristrettezze della stagione invernale. Verso la fine dell’Ottocento la produzione subì varie flessioni, dovute anche alla concorrenza straniera, fino allo smantellamento massiccio delle filande, che davano lavoro a migliaia di ragazze e donne, dopo il 1930 e alla loro chiusura negli anni Cinquanta (1).

 
Le tavole con i bachi da seta

 
Gelso e baco da seta, erba e fieno, mais, frumento, vite sono stati i prodotti principali dell’agricoltura brianzola fra Settecento e Novecento. La seconda sala è dedicata infatti all’agricoltura attraverso l’esposizione di strumenti atti alla coltivazione ed alla raccolta dei prodotti sopraccennati. “Il granoturco, ad esempio, divenne una coltura molto importante nella nostra zona e la sua diffusione fu voluta dai contadini più che dai proprietari delle terre. Il suo valore commerciale, infatti, era scarso. Mentre era molto richiesto il frumento, cui i proprietari chiedevano che fosse destinata la maggior parte dei fondi. I contadini, però, coltivavano il granoturco sotto le viti, sulle balze delle colline… Ciò perché la loro alimentazione era imperniata su pani di cereali misti e soprattutto sulla polenta, che fino alla seconda guerra mondiale si mangiava anche tre volte al giorno” (2).

 
La gerla
 
Il luogo forse più importante della civiltà contadina e tradizionale era la stalla. Destinata alla custodia ed alla cura degli animali, soprattutto bovini, equini e suini, la stalla era anche destinata all’incontro tra le persone, in particolare nelle ore serali e nel periodo invernale. Nei suoi locali i componenti delle famiglie contadine comunicavano tra loro, venivano educati i bambini, i giovani si corteggiavano, si recitavano i rosari, venivano tramandate le credenze popolari, si svolgevano lavori artigianali. Gli animali erano un bene molto prezioso per l’economia rurale dei coloni, che li affidavano alla protezione di sant’Antonio abate (3).

 
La stalla

Nel museo la stalla si apre sul portico, sotto il quale sono esposti i carri ed i mezzi usati per il trasporto, nonché le bardature per buoi e cavalli. Prima della meccanizzazione e della diffusione del benessere, che portò al largo uso di biciclette e veicoli a motore, i contadini trasportavano prodotti, merci e oggetti impiegando gli animali da soma, ma più spesso si usava il proprio corpo per portare i carichi a braccia, a spalla o sul dorso. Il trasporto era una dura necessità per tutti ed il colono, in più, aveva anche l’obbligo di trasportare alla casa del padrone ogni cosa di cui costui aveva bisogno.

 
I carri

Sotto il portico si apre una stanza che raccoglie attrezzi utilizzati un tempo per alimentare la vocazione vitivinicola delle genti brianzole. In passato i vini prodotti nella nostra area pedemontana erano estremamente apprezzati. A partire dalla metà dell’Ottocento tuttavia una serie di calamità e malattie giunte dall’estero si abbatté sulla viticoltura locale, distruggendo numerosi vitigni. Oggi solo nei comuni intorno alla collina di Montevecchia, Muntavègia, si produce vino secondo gli standard moderni con un’attività economica specializzata.

Un’altra sezione del museo riguarda gli aspetti della vita festiva. In questa prospettiva si colloca la sezione dedicata al flauto di Pan, che in Lombardia veniva indicato con termini come firlinfü, fregamüsòn, orghenìi, sìful. Già presente in Brianza tra il XVIII e il XIX secolo, come strumento di cascina e di osteria, collocato in piccole bande, il firlinfü si afferma nella sua dimensione orchestrale a partire dalla fine dell’Ottocento per poi svilupparsi e diffondersi dagli anni Venti e Trenta. Oggi alcuni gruppi folcloristici sono presenti principalmente nelle province di Bergamo, Como e Lecco.

 
I flauti di Pan
 
Altri locali, allestiti con mobili “poveri” della tradizione contadina, raffigurano una cucina con un grande camino e la camera da letto. E’ presente, inoltre, la sala dei beni immateriali e del dialogo antropologico, nella quale vengono proiettati filmati e documentari che il museo ha prodotto sui vari aspetti della cultura brianzola e lariana. Qui vengono proposte conferenze, incontri con i testimoni della tradizione, convegni, corsi di formazione, presentazioni di ricerche che evidenziano la peculiarità della ricerca antropologica basata sulla tessitura di rapporti umani tra persone che si incontrano e dialogano per comprendersi.

Il museo intende dedicare particolare attenzione agli anziani, ai quali ricorda la loro infanzia e giovinezza, ed ai bambini e ragazzi, ai quali suscita curiosità e stupore per la distanza con il presente. Nel book-shop si possono acquistare numerosi libri e audiovisivi. Le visite sono generalmente accompagnate da guide dell’Associazione Amici del Meab.

Beniamino Colnaghi

Note
1. Per maggiori approfondimenti sul tema, vedere il post “Il baco da seta“ di Livia Colnaghi, pubblicato il 3 maggio 2013.
2. Massimo Pirovano (studioso di etnografia, dirige il Meab), Lavoro e vita quotidiana delle classi popolari in Brianza. Oggetti, voci e gesti della tradizione in un nuovo museo di società.
3. Un articolo su sant’Antonio abate è stato postato il 14 gennaio 2013.


Museo Etnografico dell'Alta Brianza, località Camporeso di Galbiate (Lecco), tel. 0341.542266. Per contatti, orari di apertura e info il sito www.parcobarro.it potrà offrire tutte le informazioni necessarie.

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