venerdì 14 giugno 2013

La domenica andando alla messa…

Prendendo in prestito il titolo della nota canzone che Gigliola Cinquetti portò alla ribalta nei primissimi anni Settanta, un pezzo lieve e popolare, vorrei sviluppare un argomento di estrema attualità, che si iscrive, fatte le debite differenze che ogni periodo storico porta con sé, nel solco della tradizione cattolica e che qualcuno fa risalire addirittura ai tempi dell’imperatore romano Costantino.
Negli ultimi mesi si è aperta una disputa, una contrapposizione, rimasta per ora nei binari della civile moderazione, sull’opportunità dell’apertura dei negozi nei giorni di domenica. Per molte persone e categorie sociali, l’oggetto del contendere si sviluppa e si protende fin sul concepimento dell’organizzazione della vita delle persone, sul concetto di dare alla propria esistenza dimensioni e ritmi più lenti e “umani”. Confesercenti, la categoria dei piccoli commercianti, ha proposto l’iniziativa “Libera la domenica”, che prevede la raccolta di firme contro l’apertura domenicale dei negozi, tanto è vero che da alcuni mesi sono attivi dei banchetti che raccolgono le firme negli angoli e nelle piazze delle nostre città.
 
Il manifesto che pubblicizza l'iniziativa.
Un’alleata di Confesercenti, forse insperata, ma certamente di “peso”, è stata la Cei, la Conferenza episcopale italiana, che ha invitato le diocesi italiane ad aderire all’iniziativa e mettere a disposizione spazi e volontari. Davanti ad alcune chiese sono così spuntati i classici banchetti, sotto i quali i volontari raccolgono le firme dei fedeli che escono dalla messa domenicale. Un responsabile della diocesi di Milano ha recentemente affermato che: “L’obiettivo è sostenere una proposta di legge di iniziativa popolare che renda le aperture degli esercizi commerciali compatibili con le esigenze degli imprenditori, dei lavoratori e delle loro famiglie. Non ci vogliamo intromettere nel dibattito fra ipermercati e piccoli negozianti sulle saracinesche aperte e sull’organizzazione del lavoro. Per noi è importante salvaguardare il valore della domenica come giorno festivo nel senso forte del termine, come giorno in cui si coltivano i legami e si può dedicare del tempo all’incontro con Dio”, aggiungendo inoltre: “Se la domenica diventa il giorno delle compere, della spesa e degli acquisti, si rischia che le famiglie vivano sempre solo appiattite sulla dimensione del consumo e della produzione”. Sull’argomento è intervenuto l’arcivescovo di Milano, Angelo Scola, il quale ha recentemente dichiarato: “Nessun uomo in ogni tempo e luogo può fare a meno del riposo, visto che non è onnipotente. Il riposo, insieme agli affetti e al lavoro, è uno dei pilastri della vita quotidiana: si deve trovare la compatibilità con il lavoro”.

Si può essere d’accordo, o meno, con l’iniziativa di Confesercenti e con l’impostazione etica e sociale data dalla Cei e dalle diocesi italiane, ma non si può certo non tener conto del fatto che la Chiesa cattolica, già dall'epoca di Costantino, abbia invitato i propri fedeli ad osservare i precetti fondamentali e le leggi morali, tra i quali figura la partecipazione alla messa della domenica e delle altre feste comandate.

Per cercare di capire quali fossero i comportamenti dei fedeli verderiesi, soprattutto nei primi decenni del secolo scorso e quali le implicazioni rispetto al lavoro dei contadini e degli operai, nonché le eventuali “ammende” comminate a coloro che contravvenissero ai precetti della Chiesa e delle autorità ecclesiastiche, ho svolto alcune ricerche e sentito persone che hanno vissuto direttamente gli eventi a partire dagli anni Trenta e Quaranta ovvero sono state parte di quel sistema di tradizione orale che ha trasmesso, fino ai giorni nostri, gran parte del patrimonio storico e culturale.

La bella chiesa di Verderio Superiore.
Come accennato poco sopra, le autorità ecclesiastiche cattoliche vietavano il lavoro domenicale dei fedeli, o perlomeno cercavano di limitarlo. I parroci più avveduti e sensibili rispetto al miglioramento della vita dei loro parrocchiani, concedevano la possibilità ai contadini di poter lavorare nei giorni di domenica e festivi. Ma questa facoltà, i parroci, sempre in bilico tra il rigoroso rispetto dei precetti e la comprensione verso la dura vita delle masse contadine, la concedevano solo dietro richiesta, tanto è vero che si ha evidenza del fatto che don Luigi Galbiati, già parroco di Verderio Superiore dal 1897 al 1923, ebbe modo di rimproverare quei contadini che lavoravano la domenica senza che fosse stato richiesto il preventivo permesso. In cambio dell’autorizzazione allo svolgimento del lavoro festivo, generalmente i parroci chiedevano a coloro che avevano disatteso gli obblighi imposti dai precetti, la partecipazione alle funzioni religiose serali.

Le deroghe venivano concesse generalmente a partire da aprile, mese nel quale si seminava il granoturco, e proseguivano in maggio fin oltre i mesi estivi, quando i lavoratori della terra erano maggiormente impegnati a causa dell’allevamento dei bachi da seta e della mietitura e trebbiatura del frumento. Era un lavoro gravoso, quest’ultimo, iniziato sempre al primo levar del sole anche per evitare, per quanto possibile, la calura del periodo. Il grano infatti veniva tagliato intorno alla fine di giugno e i primi di luglio. Era anche un lavoro lungo per cui erano necessarie un buon numero di persone, ovvero tutti i componenti la famiglia ed altri che venivano in aiuto, ai quali però l’opera doveva essere successivamente restituita. Durante questi mesi di duro lavoro, i contadini non avevano nemmeno il tempo di recarsi all’osteria, l’unico vero momento di svago concesso da una vita carica di fatiche e privazioni.

La mietitura del frumento da parte di una famiglia contadina.
Diversamente, durante gli altri mesi dell’anno, i coloni, sgravati dai lavori più faticosi e impegnativi, erano tenuti a partecipare alle funzioni religiose, soprattutto nei giorni festivi e nelle feste comandate, come recita uno dei cinque precetti generali della Chiesa.
A Verderio, come per il resto della settimana, anche la prima messa della domenica veniva celebrata alle cinque e trenta del mattino, durante i mesi estivi, e alle sei nei mesi invernali.
Fin oltre gli anni Quaranta, e comunque durante tutto il periodo della seconda guerra mondiale, la maggior parte delle famiglie contadine, terminate le funzioni religiose nei giorni festivi, si dedicava al riposo ed ai momenti di incontro, sia in famiglia sia nelle strutture preposte, quali gli oratori e le osterie del paese. Le poche attività che venivano svolte erano strettamente funzionali al mantenimento dei componenti la famiglia e della buona gestione degli animali, importante fonte di integrazione del reddito contadino. Nei giorni festivi gli uomini non svolgevano le quotidiane e ordinarie operazioni, quali quelle di spazzare le stalle e strigliare e spazzolare il manto dei cavalli, ma si limitavano alla mungitura delle mucche e alla distribuzione del mangime. Nel pomeriggio i bambini ed i ragazzi frequentavano in massa gli oratori, rigorosamente separati tra maschi e femmine, e venivano coinvolti nei giochi e nei divertimenti in voga in quegli anni. Le donne, liberate dall’impegno del bucato, non avevano molte opportunità di svago, se non quelle di riunirsi, nelle calde stalle nei mesi invernali, e sotto i portici e nei cortili durante la bella stagione. Normalmente, oltre le chiacchiere di cortile, amavano ricamare, rammendare e fare la maglia.

Un contadino intento a "regolare" le mucche in una stalla.
A partire dagli anni Cinquanta la situazione si è via via leggermente modificata ed evoluta. La miseria ereditata dalla guerra, l’assunzione di molti giovani nelle fabbriche dell’hinterland milanese e una concezione più laica e aperta della vita hanno indotto molte persone, diventate più consapevoli di essere protagoniste della propria vita, a “rimboccarsi le maniche” e lavorare ancora di più al fine di migliorare le proprie condizioni materiali. Il reddito ricavato dal lavoro della terra si dimostrò insufficiente a colmare e soddisfare le nuove esigenze. A Verderio Superiore, inoltre, la famiglia Gnecchi, proprietaria della maggior parte delle terre e degli immobili dati in affitto ai coloni, cominciò a vendere le sue proprietà. La scomposizione delle famiglie patriarcali in nuovi e più piccoli nuclei familiari, fecero il resto. Fu così che quella parte della popolazione più giovane, ansiosa di crearsi una propria famiglia e rendersi più indipendente, la quale durante la settimana era occupata in fabbrica, dovette comunque proseguire nelle attività dei campi e collaborare con la famiglia d’origine. I soldi ed il tempo non bastavano mai. Si rese necessario quindi fare il doppio lavoro, in fabbrica e nei campi, e lavorare la domenica e durante i giorni festivi per avere il denaro sufficiente ad acquistare dalla famiglia borghese del luogo i modesti locali che avrebbero ospitato il nuovo nucleo familiare, ristrutturarli e provvedere al mantenimento di moglie e figli. Inoltre, le giovani coppie, attratte dall’avvento sul mercato delle nuove tecnologie, cominciarono ad acquistare apparecchi radio più moderni ed i primi modelli di televisori. Successivamente, nei primi anni Sessanta, con l’avvento del boom economico, esplose il mercato dei piccoli e grandi elettrodomestici. Qualcuno, forse più benestante di altri o semplicemente più appassionato di motori, comprò le prime Vespe e Lambrette, qualcun altro cominciò a frequentare la sala da ballo presso l’ex albergo di Paderno d’Adda, contro il parere dei parroci, ma questa è tutta un’altra storia, che rischia di portarci fuori strada.

A seguito e per gli effetti dello sviluppo economico della società, la gente cominciò ad avere più voglia di benessere e divertimento e meno di vincoli e precetti imposti dall’alto.
Tuttavia, come dice un antico proverbio, presto o tardi tutti i nodi vengono al pettine. Dopo decenni nei quali abbiamo assistito ad un irrefrenabile sviluppo del consumismo, fenomeno osservato da molti con rispetto quasi religioso, e al nascere di una modernità che ha perso per strada gran parte delle migliori tradizioni e dei valori, pare che oggi stia maturando, anche in una Chiesa che negli anni ha perso fedeli e in parte smarrito le sue origini e la sua vera vocazione, una nuova consapevolezza etica ed una nuova sensibilità verso argomenti, tanto antichi quanto attuali.
 
Beniamino Colnaghi

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